Uno studio italiano mostra come le zone più colpite dal coronavirus siano quello che ricevono una minor irradiazione di raggi UV. Per gli autori i risultati “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare, che è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus sia di favorire la sintesi della vitamina D, che potrebbe svolgere un ruolo da antagonista dell’infezione”
Le regioni italiane che ricevono meno raggi solari UV sono anche quelle dove il coronavirus ha causato più contagi e morti: a sostenerlo è uno studio italiano coordinato dal professor Giancarlo Isaia dell’università di Torino e dal ricercatore Henri Diémoz, in corso di pubblicazione sulla rivista “Science of the Total environment”. Uno studio importante, che potrebbe aggiungere un tassello ulteriore nella ricerca sul possibile ruolo della vitamina D nella lotta al coronavirus.
Lo studio è partito dall’ipotesi che l’evoluzione dell’epidemia sia influenzata, tra i vari fattori, anche da alcuni fattori ambientali come l’intensità della radiazione ultravioletta solare. Le regioni del Nord Italia sono state, come noto, più colpite dalla pandemia: per cercare di capirne le ragioni i ricercatori hanno analizzato vari fattori ambientali, demografici e fisiopatologici: dallo studio emerge come la differente esposizione ai raggi UV solari sia in grado di spiegare fino all’83.2% della variazione dei casi di coronavirus nella popolazione italiana.
Una scoperta importante: sebbene la coincidenza statistica non comporti necessariamente un rapporto di causa-effetto, i risultati “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare sulla diffusione del coronavirus e sulle sue manifestazioni cliniche. Risulta infatti che la radiazione UV è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus, sia di favorire la sintesi della vitamina D che, per le sue proprietà immunomodulatorie, potrebbe svolgere un ruolo antagonista dell’infezione e delle sue manifestazioni cliniche”.
Per questa ragione gli autori dello studio si augurano che “vengano organizzate campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sugli effetti sia positivi sia negativi dell’esposizione alla radiazione solare e sul consumo alimentari di cibi contenenti la vitamina D, oppure la sua supplementazione farmacologica sempre sotto controllo medico”.
Insomma, lo studio aggiunge un ulteriore elemento all’ipotesi che la vitamina D possa giocare un ruolo nel contrastare il coronavirus. Già a marzo il professor Isaia, insieme al collega Enzo Medico, aveva pubblicato un position paper dal titolo “Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19”. Nel documento, da cui ha preso le mosse lo studio di cui vi abbiamo parlato sopra, i due professori riassumono le evidenze scientifiche sul ruolo di adeguati livelli di vitamina D nel supportare il sistema immunitario e aiutarlo così a combattere le infezioni, in particolare del sistema respiratorio. Vitamina che, come ricordano, “può essere sintetizzata dalla cute, per effetto delle radiazioni ultraviolette emesse dalla luce solare”.
Tra i vari studi e pubblicazioni citate, particolarmente significativo sembra un lavoro del 2017: analizzando 25 studi clinici, emerge che integrare i livelli di vitamina D nelle persone che ne hanno una carenza riduce di due terzi l’incidenza di infezioni respiratorie acute. Nel position paper i professori, che sottolineano come non si stia affatto parlando di una cura per il coronavirus quanto piuttosto un valido alleato nel rafforzare il sistema immunitario di chi può venire o già è stato contagiato, elencano anche quali sono i cibi utili per mantenere un adeguato livello di vitamina D: l’aringa, lo sgombro, l’uovo e le alici, solo per citarne alcuni. Ed esistono anche i supplementi farmacologici di vitamina D, ovviamente da assumere esclusivamente sotto stretto controllo medico.
Del possibile ruolo della vitamina D nella lotta al coronavirus, in attesa del vaccino e di una cura, noi di Iene.it vi abbiamo parlato più volte: prima abbiamo elencato gli studi già pubblicati e dato conto dei dubbi a riguardo, che restano comunque diffusi nella comunità scientifica. Ad aprile infatti - prima che venissero pubblicati gli studi di cui vi abbiamo parlato - il ministero della Salute ha bollato come “falsa” l’ipotesi che la vitamina D protegga dal coronavirus, in assenza di evidenze scientifiche.
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